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Giornalismo televisivo e Coronavirus: intervista all’inviato del TG3 Nico Piro
Dopo avere intervistato il presidente del Gruppo Cronisti Liguri, che ci ha spiegato come si lavora nella carta stampata durante un’emergenza, vogliamo raccogliere la testimonianza di un giornalista televisivo. In questo modo, il blog di Mediaddress cerca di dare voce a chi, nonostante i rischi, non ha mai cessato di raccontare quanto sta accadendo in Italia.
Nico Piro, inviato della redazione esteri del TG3, da sempre trasmette i suoi servizi dalle aree di crisi. Si è occupato della guerra in Afghanistan, è stato il primo italiano a seguire le truppe americane in combattimento, ha affiancato équipe sanitarie per documentare l’epidemia di ebola in Sierra Leone.
Scrittore, blogger, padre del mobile journalism, ha ottenuto numerosi riconoscimenti e nel 2008 ha vinto il Premio Ilaria Alpi. In occasione delle ultime elezioni presidenziali statunitensi, ha realizzato il primo Facebook Live della Rai.
Oggi Nico Piro si confronta con l’emergenza Coronavirus e, attraverso i social, insegna ai giovani colleghi come si comunica in modo corretto, tutelando anche la propria salute.
Cosa significa raccontare una crisi sanitaria interna al proprio Paese?
“Sicuramente, è una di quelle cose che non mi sarei mai aspettato. Se qualche anno fa mi avessero detto: «Ti togliamo dagli esteri e ti mandiamo al mercato rionale», avrei pensato ad una punizione! Ironizzo, ovviamente, ho grande rispetto dei colleghi che seguono la cronaca italiana. Insomma, non avrei mai immaginato che una crisi del genere potesse mai arrivare «a casa nostra». Detto questo – che è l’aspetto personale – si tratta di mettere a frutto quanto ho imparato coprendo crisi di altra natura e ben più gravi. Provo sempre ad assumere il punto di vista degli altri, degli ultimi, soprattutto perché ogni crisi fa vittime «minori», gli invisibili, i dimenticati”.
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Hai scritto “Lettera ai nostri figli”, che è stata trasmessa dal programma Caterpillar, in onda su Radio Due. Come si fa a comunicare la realtà, senza spaventare i soggetti più deboli?
“La lettera che ho scritto ai miei due figli è circolata molto su Twitter ed è piaciuta anche a Massimo Cirri, autore e voce di Caterpillar. Da tempo sperimento, non solo in famiglia, il racconto ai più piccoli di fatti «da grandi», come la guerra e, oggi, il Coronavirus. Ai bambini dobbiamo verità, le bugie non aiutano a crescere. Certo, c’è bisogno di un linguaggio gentile e delicato, di metafore, ma la verità va loro raccontata. Credete che i più piccoli non si pongano domande su quello che sta accadendo, che non ascoltino quello che dicono i grandi in casa o in televisione? E allora meglio rispondere e chiarire, piuttosto che lasciare nodi irrisolti”.
Abbiamo chiacchierato un po’ e ho chiesto ai miei bambini: “Sapete, questa per voi è una gran fortuna”…”Fortuna?”, mi hanno guardato esterrefatti. “Si – ho detto io – perché adesso potete finalmente capire quanto siete fortunati e quante cose straordinarie avete ogni giorno. Ce le avete tanto facilmente che vi sembrano normali, poi arriva un virus e tutto scompare!”.
Abbiamo cominciato a parlare di quei bambini che nel resto del mondo hanno una casa, dei giocattoli, buone cose da mangiare, dei parenti che li amano. Insomma, che sono come loro, ma che all’improvviso sono costretti a rintanarsi tra le mura domestiche o a scappare lontano perché cominciano a cadere bombe dal cielo o le zolle di terra bagnata, lungo la strada, nascondono IED appena interrate. Perché lo scuolabus sul quale viaggiava il cuginetto è stato colpito da un missile, nonostante fosse carico di bimbi e di zaini azzurri dell’Unicef. […] Ecco: io credo che le crisi siano sempre fonti d’opportunità, che nelle avversità riusciamo a fare e a vedere cose che normalmente ci sembrano impossibili o invisibili”.
Che cos’è il “modello Kabul”? Come lo applichi alla cronaca italiana?
“Tutto nasce da una battuta che ho fatto con i colleghi di journalism.co.uk che mi hanno intervistato, perché interessati a capire da noi italiani – che siamo stati colpiti prima dall’epidemia – il metodo di lavoro, facendo i conti con il virus. Semplicemente, come in una zona di guerra, e questa non è una guerra, si tratta di pianificare quello che si fa allo scopo di «mitigare» il rischio. Quando mi trovo a Kabul, e adesso anche a Roma, cerco la notizia, la concordo con la redazione, vado in giro da solo, senza fonico né cameraman, riprendo, scrivo il servizio e lo monto. In guerra questo approccio mi permette di dare meno nell’occhio, in Italia di limitare i contatti fisici”.
Sei stato uno dei primi a credere nel mobile journalism. Ci spieghi di che cosa si tratta esattamente e se la categoria è pronta a lavorare in questo modo innovativo?
“Il mobile journalism ruota intorno all’uso degli smartphone al servizio del giornalismo. Io credo che il nostro mestiere non cambierà mai, sarà sempre fatto di cose come la caccia alle notizie e la verifica delle fonti. Quello che cambia sono gli strumenti per portare i nostri contenuti dove si trova il pubblico e oggi il pubblico non è più intorno alle edicole e tanto meno davanti alla televisione. Ho ideato e sono direttore artistico di Mojo Italia, il primo festival che celebra la cultura del giornalismo mobile, promosso dall’Associazione Stampa Romana. In questi giorni, stiamo mettendo a disposizione i seminari dell’ultima edizione della rassegna, in modo da aiutare chi resta a casa durante l’emergenza”.
Si dice che l’esperienza Coronavirus cambierà la nostra vita. Secondo te, cambierà anche il modo di fare giornalismo?
“Mi sembra un po’ presto per fare analisi del genere. Certo, le limitazioni allo spostamento hanno favorito la smaterializzazione di tante attività, compresa la lettura del vecchio caro quotidiano cartaceo che già non godeva di ottima saluta. Vedremo”.
admin
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