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Slow Journalism, fare meno per fare meglio: intervista ad Alberto Puliafito

Nel contesto dell’informazione generalista, il digital journalism tende a privilegiare la quantità e la rapidità di diffusione degli articoli pur di stare al passo di Internet, nonostante la qualità del contenuto ne risenta notevolmente. Lo slow journalism, invece, è un modo di fare informazione che si pone in controtendenza, puntando su un’elaborazione più lenta e ragionata del contenuto giornalistico in modo da elevarne la qualità.

Abbiamo chiesto ad Alberto Puliafito, direttore del giornale online Slow News, di raccontarci qualcosa in più di questo metodo di fare informazione che vuole “fare meno per fare meglio”.

Slow journalism

Raccontaci di te, delle tue esperienze e di cosa ti occupi.

“Prima di ogni altra cosa, provo ad essere il papà di Gaia e Alessandro: è un impegno (e durante l’emergenza Covid-19 è diventato un impegno molto grande) che, fortunatamente, condivido con mia moglie. Un tempo avrei risposto a questa domanda mettendo prima di tutto il lavoro. Ma le prospettive e le priorità cambiano. I miei figli sono stati anche una grande ispirazione per la mia professione: grazie a loro ho imparato molte cose. A cominciare dal valore del tempo e dell’importanza di fare meno e di farlo il meglio possibile. Elaboro contenuti (scritti, video, fotografici) e mi considero un migrante digitale: sono abbastanza vecchio per aver iniziato a lavorare sulla carta, ma sono anche parte di quella generazione per cui la transizione al mondo digitale è stato un fatto naturale. E, in effetti, uno dei miei tanti lavori, quello del consulente, è orientato proprio a facilitare questa transizione nelle aziende – editoriali e non solo – che è ben lontana dall’essere compiuta. Ho una casa di produzione indipendente che si chiama IK Produzioni con cui realizzo, fra le altre cose, documentari; un progetto dedicato al mondo del fai da te e del bricolage che si chiama Come fare con Barbara e poi il progetto giornalistico della mia vita: Slow News”.

Alberto Puliafito, cofondatore e direttore responsabile di Slow News

Com’è nata la passione per il giornalismo?

“È una cosa che, se ci penso bene, affonda le radici nelle mie prime attività «extrascolastiche»: avete presente il classico percorso con il giornalino di classe o di istituto? Ecco, parte tutto da lì. Il giornale di carta era un oggetto presente in casa mia, certo, ma la spinta a cercare di capire le cose, di unire i puntini, di provare a raccontare pezzi di realtà è qualcosa che ho sempre sentito a livello quasi istintivo. Si dice che certe professioni richiedano anche un po’ di vocazione e forse qualcosa di vero c’è”.

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Cosa pensi dell’informazione generalista nazionale?

“Penso ci sia una situazione di crisi di sistema, ormai pluridecennale che non è stata affrontata con un approccio realmente innovativo, per molti motivi.

Se aggiungiamo a questa inerzia, in termini di ricerca e sviluppo, il fatto che il mondo sia cambiato sotto ai piedi delle istituzioni tradizionali – non solo del giornalismo – ecco che ci ritroviamo in una situazione davvero difficile: i dati quantitativi sono quasi costantemente al ribasso (si vende sempre meno), i ricavi da digitale non compensano le perdite della carta e, come se non bastasse, ogni anno le ricerche qualitative parlano di un rapporto fiduciario fra il giornalismo e il pubblico sempre più incrinato. In tutto questo, la tradizione pesa tantissimo: il narratore onnisciente, così il giornalista italiano concepisce storicamente sé stesso, un po’ paternalista, un po’ autoritario, a volte con un ego smisurato, che sa cos’è meglio per te, non si adatta per nulla alla contemporaneità.

In generale, insomma, penso che la risposta dell’informazione generalista nazionale a questa situazione, fino a questo momento, non è stata all’altezza dell’enorme sfida che abbiamo di fronte: salvare prima di tutto il giornalismo come colonna portante della democrazia”.

Qual è la tua idea di giornalismo?

“Per me il giornalismo è, prima di ogni altra cosa, un servizio alle persone, alle comunità. Fare bene giornalismo significa mettere a disposizione le mie competenze per contribuire a dare a tutti gli strumenti per prendere decisioni consapevoli. Significa capacità di ascolto dei bisogni della gente, capacità di offrire un racconto sia dei problemi, sia delle soluzioni, significa metodo, significa capacità di approcciarsi ad ogni argomento che si affronta con quella che, in mindfulness, si chiama «mente del principiante», abbandonando i propri preconcetti per mettersi, appunto, al servizio del bene collettivo. Magari ti può sembrare una visione un po’ troppo utopistica, ma se non puntiamo al sogno come facciamo a cambiare il mondo?”.

Slow Journalism: cosa si intende e perché è importante?

“Lo slow journalism, che è quello che cerchiamo di fare in Slow News, è un giornalismo che fa meno e cerca di farlo meglio, un giornalismo che fa uscire pezzi ragionati quando sono pronti per uscire, non quando si deve.
È un giornalismo che non insegue l’eccezione, ma i temi fondativi della contemporaneità.
Se continuiamo a pensare che fa notizia quando è l’uomo a mordere il cane, riempiremo i giornali di eccezioni e continueremo a perdere di vista lo sguardo più ampio che serve veramente: quello sulla realtà. Vi faccio un esempio. Quando sono usciti i video sugli «aperitivi sui Navigli», l’8 maggio, ho cominciato a pensare a un pezzo che poi è uscito 17 giorni dopo, quand’era pronto e quando avevo avuto la possibilità di mettere insieme tutti i puntini. Si intitola Senza protocolli ma contro la movida, dentro ci sono diverse storie che convergono tutte verso un elemento cruciale. Cioè: l’eccessiva copertura mediatica che è stata data agli aperitivi, ignorando sistematicamente i problemi strutturali della gestione dell’emergenza Covid-19. Il pezzo è uscito solo dopo che era davvero pronto, dopo una revisione, ed è un oggetto vivo, che potrà essere integrato, aggiornato, migliorato.

Non solo: fare slow journalism significa anche mettere al centro del progetto giornalistico lettrici e lettori, renderli partecipi, attori attivi del prodotto giornalistico e non solo fruitori passivi di un pezzo scritto o di un video. Significa sperimentare, staccarsi dal modello di business tradizionale della pubblicità, cercare la sostenibilità economica avendo come unici referenti lettrici e lettori. Significa ecologia (nel senso che non si inondano gli ecosistemi informativi di centinaia di contenuti tutti uguali e ansiogeni alla caccia disperata di un click in più), significa fare le cose con cura, con il tempo che ci vuole.

È un percorso. Fra le altre cose, un percorso che condividiamo con molte realtà in giro per il mondo. Abbiamo raccontato questo percorso anche in un film documentario che, fra le altre cose, è finito in concorso nella competizione internazionale del Festival di Salonicco”.

Long journalism e slow journalism: differenze e considerazioni.

“Lo slow journalism, semplicemente, non è necessariamente lungo. Puoi essere slow persino con un tweet, con un messaggio, con un video breve. Quel che fa la differenza è il processo di costruzione del messaggio. Se vedo accadere una cosa e twitto senza pensarci, non sono slow. Se vedo accadere una cosa, mi oriento, la colloco in un sistema, capisco se conosco o meno quel sistema, commento sulla base di esperienze reali che ho e non per sentito dire, ecco che sono slow. Per esempio”.

slow journalism masterclass

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Avete lanciato da poco la Slow Journalism Masterclass: com’è nata l’idea?

“Era una cosa che avevamo in testa da tempo e che si è consolidata grazie al lavoro di Gabriele Cruciata e di alcune colleghe e colleghi. Sappiamo che c’è una grande domanda di formazione e di innovazione nel mondo del giornalismo. Abbiamo cercato di trasformare l’inerzia e i lavori persi durante l’emergenza Covid-19 in qualcosa di concreto. Ed è venuto fuori un corso, secondo me bellissimo, la cui prima edizione è andata sold-out con 40 partecipanti (fra cui anche persone che, sulla base di una selezione che abbiamo fatto personalmente, fruiranno del corso gratuitamente). È andata talmente bene che prima ancora di far partire la prima edizione di giugno stiamo già mettendo in cantiere quella di luglio”.

A luglio su Micromega uscirà un saggio scritto da te e Daniele Nalbone sullo slow journalism, vuoi accennarci qualcosa?

“Daniele è prima di tutto un amico. E poi un collega di quelli che ha capito che, se condividiamo competenze e lavoro e se facciamo le cose insieme, ci arricchiamo. Un giorno mi ha proposto di scrivere insieme un libro: è venuto fuori un saggio che si intitola proprio Slow Journalism, pubblicato da Fandango. E poi, dopo che ha iniziato a collaborare con Micromega, mi ha proposto di scrivere insieme una specie di nuovo capitolo del libro proprio per Micromega: è uno sguardo su quel che sarà il giornalismo del futuro. Una proposta. Che naturalmente affonda le proprie radici nello slow journalism“.

Ringraziamo Alberto per il la sua disponibilità e per averci raccontato Slow News, un progetto giornalistico che si distingue per la qualità dei suoi contenuti.

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