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Il giornalismo tra ieri e oggi: intervista ad Antonio Valentini

Nel dicembre del 2006 il settimanale statunitense Time scelse come simbolo dell’anno che stava per concludersi “You”, per dire al proprio lettore: “Il protagonista sei tu, che hai contribuito all’esplosione della democrazia digitale”.

Cominciava così una nuova era, quella del giornalismo partecipato, reso possibile dai nuovi media. Se il lavoro dei professionisti rimane unico ed insostituibile, oggi tutti possono diffondere notizie che a volte sono utili, altre volte prive di fondamento, se non addirittura dannose.

Per comprendere quale sia lo stato del giornalismo italiano in quest’epoca difficile, abbiamo intervistato Antonio Valentini del Corriere Fiorentino. Dopo essere stato per 30 anni nel gruppo Espresso, dove ha svolto tutte le mansioni, compresa quella di inviato, oggi Valentini fa parte del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ed è docente all’Università di Pisa, dove insegna comunicazione giornalistica.

Come è cambiata la professione con lo sviluppo dei media digitali?

“La commercializzazione dello smartphone ha determinato una rivoluzione nel mondo del giornalismo. Quello è il momento zero, che ha permesso alle notizie di diffondersi online. Oggi, inoltre, è aumentata la partecipazione nel confezionamento della notizia. Per usare una similitudine, prima si agiva, come nel calcio, in un rettangolo di gioco in 22 persone, in due squadre di fronte a 90 mila spettatori, se fossimo stati allo stadio San Siro. Adesso, invece, si gioca sempre in 22, ma spesso accade che il pubblico partecipi alla partita. Il cambiamento che ha subìto il giornalismo sta anche nel fatto che i cronisti non sono più gli unici custodi della notizia, ma assieme a loro il pubblico ha iniziato a produrre contenuti informativi, a fabbricarli e a diramarli”.

Antonio Valentini

Esistono ancora la ricerca della notizia e il giornalismo d’inchiesta?

“Certamente. La notizia è sempre l’ingrediente base del lavoro del giornalista. E’ cambiato il modo di fruire dell’informazione, un tempo appannaggio esclusivamente della carta stampata, oggi con l’avvento del digitale ha cambiato sede, si trova online. Pensiamo, però, al ruolo che rivestono ancora la televisione e la radio. Due anni fa, quando cadde il ponte Morandi, il primo medium a trasmettere la notizia è stata la radio. A maggior ragione, esiste il giornalismo d’inchiesta, che ha cambiato forma. E’ migrato dai giornali alla televisione. Sono tante le trasmissioni d’inchiesta che vediamo in TV o su RaiPlay. Oggi il giornalismo ha molteplici modalità di espressione e di manifestazione”.

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La carta stampata è in crisi. Tutte le testate oggi offrono la versione online, che spesso sono una fotocopia del cartaceo. Si potrebbe fare un passo in più, rinnovando anche il contenuto di quest’ultimo?

“Dipende dalle testate giornalistiche. Facciamo l’esempio de Il Foglio. E’ uno di quei giornali che sul cartaceo offre spunti maggiori. Le notizie si trovano online, sul cartaceo gli approfondimenti. Il problema, forse, è un altro. Tutto dipende dall’assenza, ormai, di editori puri in Italia che vogliano investire nell’informazione. Le redazioni soffrono di carenza di organico, ma sono aumentati i canali attraverso cui l’informazione viene praticata. Lo stesso redattore che prima aveva da scrivere una pagina e a titolarne due, ora si trova a dover scrivere una pagina, titolarne due e a fare altri quindici lanci. Il cartaceo e l’online, spesso, si sovrappongono proprio per questa ragione. C’è un problema di investimento. Gli editori, anziché investire di più con l’avvento della crisi, hanno ridotto gli organici, anche attraverso gli ammortizzatori sociali, ma non hanno migliorato la qualità del prodotto.

Se analizziamo siti di informazione, in molti casi si trovano piattaforme vecchie, che non vengono periodicamente sottoposte a restyling, è evidente siano state concepite parecchi anni fa. Infine, va detto che alcuni giornali hanno tentato la via della convivenza tra cartaceo e online, ricorrendo a stratagemmi diversificati. Un esempio è il tassametro pensato da Il Corriere della Sera: si possono leggere un totale di articoli al mese, dopodiché c’è un limite. I giornali dell’ex Gruppo Espresso, come la Repubblica, consentono di leggere una parte di articoli, poi lo scritto va in dissolvenza e, per continuare, bisogna abbonarsi. Chiariamo subito che tutto questo non risolve assolutamente il problema. Dall’online non ci sono risorse dignitose per la sopravvivenza delle aziende editoriali, tanto che molti siti di news sono fortemente in crisi”.

Giornalisti si nasce o si diventa? Lei insegna comunicazione giornalistica all’Università di Pisa. Anche se una laurea in giornalismo in Italia non c’è ancora, oggi esistono corsi e master per l’apprendimento della professione. Quali sono i vantaggi e i rischi rispetto alla vecchia gavetta?

“Senza dubbio, il master in giornalismo oggi è l’unico modo per accedere alla professione, perché le aziende editoriali pubbliche non assumono più praticanti. Sono stati istituiti corsi professionalizzanti che rappresentano un’eccellenza assoluta. Materie come il data mining, che oggi è fondamentale per un giornalista in qualunque redazione, si insegnano a lezione. Servono conoscenze specifiche. Certo, è difficile fare la cronaca in un ambiente che non sia la vita quotidiana, però dipende anche dai master, perché alcuni formano professionalità in grado di essere all’altezza”.

Siamo sempre connessi, conosciamo e commentiamo i fatti in tempo reale. L’eccesso di informazione corrisponde ad una cattiva informazione?

“Tempo fa l’eccesso di informazione elevava l’informazione verso l’alto. Per resistere alla concorrenza, si innalzava sempre l’asticella della qualità. Oggi il problema non è tanto nell’overload informativo, ma nella necessità di distinguere l’informazione professionale da quella non professionale. Per fare informazione serve impresa. Se un direttore di un giornale manda un inviato a Kiev, è chiaro che il reporter avrà spese di viaggio, di soggiorno, si dovrà prima documentare, c’è bisogno di un’organizzazione del lavoro. Purtroppo, l’editoria subisce la mancanza di reddito e, di conseguenza, l’informazione professionale va scemando per lasciare posto a quella sui social dove è difficile distinguere il falso dal vero”.

Come ci si può difendere, allora, dalle fake news che, talvolta, sono riportate anche da grandi giornali?

“L’informazione professionale, purtroppo, non sempre produce il vero. Abbiamo assistito al caso degli internazionali nucleari di Saddam Hussein, che poi erano del tutto inesistenti, però diciamo che chi è iscritto ad un Ordine subisce pesanti conseguenze nel caso in cui dia una notizia falsa. Ricordo la legge del 1963, in particolare, l’articolo 2, in cui si vincola il giornalista alla verità sostanziale dei fatti. E’ difficile che i canali di sedicente informazione rispettino lo stesso requisito. Lì la verità diventa un optional.

Di fronte alle fake news bisogna andare sempre alla fonte. Ad esempio, se una notizia viene riferita dal Governo, è bene visitare il sito del Governo per vedere se risulta. Esistono meccanismi di debunking, che vengono insegnati nei master universitari in giornalismo, come il controllo dell’URL. Purtroppo, la maggioranza degli utenti che si informa sui social network non conosce questi strumenti di autotutela. Si tratta di iniziare a fare, fin dalle scuole superiori, una sensibilizzazione degli alunni: oltre a fornire i device per connettersi alla Rete, anche offrire gli strumenti culturali per difendersi dalle minacce, in primis fake news e deep fake, che sta avanzando notevolmente e di fronte al quale non c’è apparente difesa”.

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