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La stampa cattolica resiste alla crisi: intervista al giornalista Luigi Rancilio
Il giornalismo, oltre ad informare, può educare? Molti ritengono di no. Ma la stampa cattolica, da sempre, si prefigge anche questo scopo e raggiunge l’obiettivo. L’esempio più chiaro è fornito da Avvenire, il quotidiano che non ha mai conosciuto crisi e che, perfino attraverso i social, punta alla qualità, non alla quantità. Nel tempo il giornale è cambiato, introducendo il primo allegato al servizio della famiglia. Oggi è pronto per nuove sfide.
Abbiamo incontrato Luigi Rancilio, giornalista di punta di Avvenire, responsabile dei canali digitali dello storico quotidiano. Ideatore e penna della rubrica Vite digitali, Rancilio ha pubblicato il libro “Gli influencer cattolici: un identikit e un decalogo” (Vita e Pensiero, 2020).
Da adolescente, Luigi Rancilio collaborava con Radio Supermilano, la prima radio libera di fede cattolica in Italia. Nel 1988 iniziava a scrivere di musica su Avvenire, fino a ricoprire il ruolo di caposervizio della redazione spettacoli. Curiosità e passione hanno fatto conoscere a Rancilio ogni settore dell’informazione, per questo spesso viene invitato come relatore ai corsi di aggiornamento per i giornalisti. L’etica professionale per Luigi è una missione. La competenza, un dovere.
Dal 4 dicembre 1968, data di nascita di Avvenire, il quotidiano cattolico non ha mai perso lettori. Anche in anni molto difficili per la vendita dei giornali in Italia, Avvenire è stato in grado di mantenere una solida community formata, in gran parte, da abbonati. Qual è il segreto della stampa cattolica?
“Premesso che a questa domanda dovrebbe rispondere il direttore Marco Tarquinio, credo non esista un segreto, semmai una «vocazione». La stampa cattolica e con essa Avvenire sono voci di una comunità. Meglio: sono parte di una comunità, quella cattolica. Per quello che riguarda Avvenire, questo si è tradotto sempre in una missione ben precisa: lavorare sulla qualità, ancor prima che sulla quantità, per servire al meglio una comunità e darle voce nel mondo laico. Un impegno grande che ci ha permesso e ci permette di raccogliere frutti importanti anche in tempi di crisi dell’editoria”.
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Negli anni Novanta il giornale si rinnova, introducendo la versione digitale. Il cambiamento non è soltanto formale – dal cartaceo all’online – ma anche sostanziale perché nascono supplementi, come Noi Genitori & Figli e il giornale per i bambini Popotus, che dimostrano il bisogno di stare al passo con i tempi. Come viene accolta dai lettori questa nuova dimensione?
“Popotus e Noi Genitori & Figli sono nati nel 1996. E hanno seguito la linea alla quale accennavo prima: servire una comunità, con pubblicazioni mirate. Quando è uscito Noi Genitori & Figli, non c’erano pubblicazioni al servizio della famiglia. Anche l’esperienza di Popotus è stata profondamente innovativa: nessuno allora faceva un giornale di informazione per i bambini e i ragazzi. Queste pubblicazioni, così come Luoghi dell’infinito – il mensile di arte e itinerari culturali di Avvenire, nato 17 anni fa – sono state accolte molto bene sia dai lettori tradizionali di Avvenire, sia dal mondo educativo”.
Oggi quanto è social Avvenire? Quali novità Lei ha introdotto, come responsabile dei canali digitali?
“Se essere social significa usare ogni mezzo, lecito o meno, inseguire ogni tipo di notizia, magari puntando su quelle morbose per aver qualche clic in più, dico subito che Avvenire ha scelto un’altra strada. Per noi i social sono strumenti di relazione, prima che di diffusione. Non ci interessano i record e nemmeno i fenomeni, ma poter costruire ogni giorno un rapporto con i lettori, con gli ex lettori e, in generale, con il mondo cattolico e anche con i laici che apprezzano il nostro essere fuori dagli schemi.
Come responsabile dei social, la prima novità che ho introdotto è stata Il galateo social. Cioè, una serie di regole ben precise volte a migliorare la qualità del confronto e che penalizzano (fino alla cancellazione) i post con parole volgari e insulti. Da noi, qualunque critica, è benvenuta, la maleducazione no. Come quotidiano e come quotidiano dei cattolici abbiamo la responsabilità di pretendere dai nostri lettori uno sforzo per offrire un livello di dibattito che non sfoci mai nella rissa o nell’offesa”.
L’emergenza Coronavirus ha contribuito ad una maggiore digitalizzazione del mondo cattolico, un processo che già era in corso tra messe in streaming ed app per pregare. Il digitale non rischia di raffreddare il rapporto tra parroco e fedeli? Oppure, al contrario, permette di avvicinare le nuove generazioni?
“Per come la vedo io, il digitale è come un elettrodomestico: bisogna imparare ad usarlo, e bene, per un fine preciso. Lo streaming, le app, i webinar, i social sono tutti strumenti che devono essere usati al servizio di un progetto preciso. Occorre un «piano editoriale» anche per i preti, le parrocchie, le diocesi. Altrimenti qualunque presenza digitale, alla lunga, si rivelerà fallimentare e, allora, oltre che inutile, anche potenzialmente dannosa. Ci sono sacerdoti come Don Alberto Ravagnani che con Instagram, YouTube e TikTok hanno avvicinato migliaia di ragazzi e altri che nutrono dubbi e paure verso il digitale. A questi ultimi vorrei dire che la Rete, se usata bene, non toglie mai spazio al confronto reale, ma può aiutare a raggiungere tanti lontani e a creare relazioni che poi si possono riverberare anche di persona”.
Abbiamo un Papa innovatore. Qual è il rapporto di Francesco con i social?
“A livello di mass media la Chiesa è sempre stata in prima linea. Per quello che riguarda i social, il profilo Pontifex su Twitter è stato lanciato da Benedetto XVI nel dicembre 2012. Quello che colpisce in Papa Francesco è la sua capacità di leggere luci e ombre dei social, senza (l’ha dichiarato lui) usarli in prima persona. E questo si deve alla sua profonda conoscenza dell’animo umano e dei processi relazionali che intercorrono tra le persone”.
Lei ha stilato un decalogo per l’uso corretto dei social network. Ce lo può illustrare?
“Tutto è nato durante la pandemia. Pensando all’inedito, doloroso e straniante periodo che stavamo tutti vivendo, ho scritto la mia rubrica settimanale su Avvenire dedicata al digitale, dandomi per primo delle regole per usare al meglio i social. Come scrivevo, «se vogliamo migliorare le nostre relazioni digitali, dobbiamo darci tutti una regolata. Dobbiamo fare meno per fare meglio. Imparare a limitare i post che facciamo e a usarli per comunicare bene e il bene. Per essere utili agli altri e non di disturbo. Per creare coesione e non divisione». Il risultato sono 10 regole, ma a me piace pensarle come suggerimenti, che anche oggi mi sembrano attuali. Eccoli:
1) Il tempo degli altri è prezioso: non subissarli di messaggi, mail, catene, video, post o spam.
2) Ogni volta che stai per postare qualcosa sui social, chiediti: è utile?
3) Se vedi sui social un contenuto dubbio, prima di postarlo verificalo.
4) Se non puoi, non vuoi o non riesci a verificare un contenuto, non condividerlo.
5) Ogni strumento digitale può essere prezioso, ma non abusarne.
6) In questi giorni, più che mai, cerca di non essere aggressivo con chi incontri online. Siamo tutti più fragili.
7) Usa il digitale per rimanere connesso con gli amici. Ma in un modo vero, sincero, profondo.
8) Quando con la tua Rete internet da casa puoi fare tutto, ricordati che il mondo è «online» ma non tutto (anche in Italia molti non sono connessi) e non tutti lo sono allo stesso modo.
9) Questo tempo, più che mai, esige che rispetti gli altri. E che tu metta da parte chi semina odio e falsità.
10) La prima regola per stare bene nel digitale è semplice: applica la buona, antica e sana educazione che ci hanno insegnato da bambini. È analogica ma funziona benissimo anche nel digitale”.
admin
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